18 febbraio 2009

PRAGA

LA MATTINA DEL 15 MARZO 1939

 Come sopraggiungono i grandi avvenimenti? Inaspettati e improvvisi. Una volta verificatisi, tuttavia, constatiamo immancabilmente che “non” siamo affatto sorpresi. In noi sonnecchia come un presentimento, una prescienza dell’avvenire, soffocata però dalla ragione, dalla volontà, dal desiderio, dalla paura, dalle preoccupazioni di tutti i giorni, dal lavoro. Ma quando ci sbarazziamo di tutto e non restano che le nostre sensazioni più profonde, di colpo ci rendiamo conto: lo sapevo. Non per niente oggi si sentono tanti ripetere: “io lo immaginavo, io l’avevo detto”. Io credo loro. Tutti lo avevamo presagito e se avessimo dato ascolto alla voce del nostro cuore, quando eravamo soli a casa o al nostro stanco risveglio all’alba, se avessimo saputo tradurre in parole le nostre sensazioni – le sensazioni sono più vere dei ragionamenti spesso distorti – allora avremmo detto:noi ce lo aspettiamo. Ma la logica delle cose nasconde in sé al tempo stesso il proprio contrario. Ognuno attende durante la vita un evento eccezionale: la fortuna, la miseria, la malattia, la fame, la morte. Ma quando sopravviene egli non lo riconosce. Sa soltanto che questo evento si è impadronito completamente di lui senza lasciargli il tempo o la possibilità di agire.

         Quando il telefono ha squillato, martedì, alle quattro del mattino, quando amici e conoscenti hanno telefonato e la radio ceca ha cominciato le trasmissioni, la città sotto le nostre finestre aveva il solito aspetto di tutte le notti. I lampioni in fila formavano lo stesso disegno, i crocevia la stessa croce. Solo che, a poco a poco, già dalle tre, hanno cominciato ad accendersi le luci: dai vicini, di fronte, di sotto, di sopra, infine in tutta la strada. Noi stavamo alla finestra dicendoci: anche loro l’hanno già saputo. Abbiamo svegliato altri per telefono: lo sapete già? Si, lo sapevano. Un’alba sbiadita sopra i tetti, una pallida luna dietro le nubi, volti di chi non ha dormito, una tazza di caffè caldo e gli annunci dati dalla radio a intervalli regolari. E’ così che giungono i grandi eventi: piano, in punta di piedi, senza preavviso.

          I giornali tedeschi hanno pubblicato un reportage sui soldati tedeschi in marcia verso Praga: la città silenziosa avvolta in un’alba che sa già di primavera, la colonna di camion tedeschi carichi di uomini a cui batte il cuore: che cosa accadrà nella città? Come si comporteranno gli uomini in queste strade sconosciute? Giunti in periferia, fermano il primo passante che incontrano. E’ un operaio che si reca al lavoro. Capiscono a prima vista che egli sa tutto. L’uomo è calmo, in silenzio e senza scomporsi indica loro la via.

          Come sempre, in occasione di grandi avvenimenti, i cechi si comportano in modo esemplare. Che la radio ceca sia ringraziata per la concisione, l’obiettività e la pazienza con cui ha ripetuto continuamente, ogni cinque minuti: l’esercito tedesco ha varcato la frontiera e si sta dirigendo verso Praga. Restate calmi. Andate al lavoro. Mandate i vostri bambini a scuola.

         Come sempre, alle sette e mezzo, frotte di bambini si sono incamminati verso la scuola. Come sempre, operai e impiegati si sono recati al lavoro, come sempre, i tram erano strapieni. Solo che gli uomini erano diversi. Se ne stavano lì e tacevan. Mai avevo sentito tanti uomini tacere. Non un capannello per le strade, non gente che discuteva. Negli uffici nessuno sollevava la testa dalle proprie scartoffie. Io non so come si spieghi questa linea di condotta comune in migliaia di persone, da dove scaturisca il ritmo armonioso di tutte queste anime che pure non si conoscono: il 15 marzo 1939, alle otto e trentacinque di mattina, l’esercito tedesco è entrato in via Narodnì. Sui marciapiedi una folla di passanti, come sempre. Nessuno ha guardato, nessuno si è voltato. Solo la popolazione tedesca ha dato il benvenuto all’esercito tedesco.

         Anche i soldati tedeschi si sono comportati correttamente verso di noi. E’ strano come le cose cambino quando una qualsiasi compagine di persone si scinde nei singoli elementi, quando un uomo si trova faccia a faccia con un altro uomo. In piazza Venceslao una ragazza ceca ha incontrato un gruppo di soldati tedeschi. Era già il secondo giorno dell’invasione, tutti avevamo i nervi a fior di pelle. E poiché è soltanto al secondo giorno che si riesce ad afferrare, a valutare bene ciò che è accaduto, le sono salite le lacrime agli occhi. Allora è successa una cosa curiosa: un soldato, un soldato semplice tedesco, le si è avvicinato e le ha detto: “Ma signorina, noi non possiamo farci niente…!” Come quando si vuole consolare un bambino piccolo. Egli aveva un viso tedesco, qualche lentiggine, i capelli rossicci e un’uniforme tedesca. Per il resto era del tutto simile ad uno dei nostri soldati – anch’egli un uomo semplice, attaccato al suo paese. Così i due stavano l’uno di fronte all’altro “e non potevano farci niente”. Questa frase, così semplice, così terribilmente banale, è la chiave di tutto.

         Su di un tram è accaduto un altro episodio: un giovane ceco che portava una striscia al braccio faceva grandi discorsi: quel che ora potremo realizzare, a chi la faremo pagare, finalmente faremo piazza pulita, senza guardare troppo per il sottile. A parte il bracciale portava una svastica al risvolto della giacca. All’udire questi sproloqui tutti gli altri ammutoliscono, finchè nell’intera vettura cala un profondo silenzio. Un ufficiale tedesco seduto in un angolo si alza di scatto, si avvicina al tipo e gli chiede in “ceco”: “Lei è ceco?” Il giovane si rimpettisce e risponde fieramente: “Si, sono ceco”. Allora l’ufficiale tedesco gli toglie il distintivo con la croce uncinata e gli dice calmo, con fermezza: “In questo caso lei non ha il diritto di portare questo distintivo”.

         Lo vedete, ci sono momenti in cui si vorrebbe andare da un ufficiale tedesco e dirgli: “La ringrazio”.

          Alcuni giorni or sono ho avuto un colloquio con un tedesco, un nazionalsocialista, s’intende. Egli mi ha parlato diffusamente e in maniera molto assennata della situazione dei cechi, dei vantaggi ma anche degli svantaggi che, a suo avviso, da essa possiamo derivare. Poiché oggi tutto è ancora in forse e persino le persone non possono che esprimere semplici opinioni sull’argomento, le sue dichiarazioni non sono particolarmente interessanti. Interessante invece è ciò che quest’uomo pensa dei cechi. Egli mi ha domandato, quasi con imbarazzo: “Come spiega il fatto che tanti cechi vengano da noi salutandoci con ‘Heil Hitler’?”

         “Cechi? Deve esserci un errore”.

         “Non c’è alcun errore. Vengono nei nostri uffici, alzano il braccio destro e dicono: ‘Heil Hitler’. Perché? Potrei raccontarle di uno scrittore che – già da ora e con furia – muove cielo e terra perché i suoi drammi vengano rappresentati a Berlino. Potrei raccontarle di molti che, con zelo eccessivo, fanno più di quanto dovrebbero per compiacerci, si, addirittura si affannano. Sa, ogni tedesco comprende l’orgoglio nazionale, comprende il rifiuto di curvare la schiena. Mi creda, in un tedesco di oggi un comportamento servile può provocare tutt’al più un sorriso pietoso”.

          In due giorni il volto della città è cambiato fino a diventare irriconoscibile. Nelle osterie siedono uomini in uniforme che noi non conoscevamo neppure attraverso le fotografie. Per le strade circolano vetture che non avevamo mai visto. Vanno di qua e di là, sanno sempre quel che devono fare – in breve hanno sempre una meta e vi puntano senza esitazione. Nelle librerie si vendono soprattutto piante della città e libri francesi e inglesi. Gruppetti di soldati passeggiano per le vie, si fermano davanti a una vetrina, guardano, discutono. Malgrado tutto, non una rotellina, non una penna, non una macchina si sono fermate.

          Sull’Altstadter Ring sorge la tomba del Milite Ignoto. Oggi essa è invisibile, ricoperta da una montagna di bucaneve. Una strana forza guida misteriosamente qui i passi della gente, vi conduce schiere intere di praghesi; ognuno depone un mazzolino di bucaneve su questa modesta tomba di un grande ricordo. Lacrime scorrono sul viso di quanti vi stanno intorno. Non soltanto su quelli di donne e bambini, ma anche di uomini che a piangere non sono abituati. E anche questo è inconfondibilmente “ceco”: non si sentono lamenti, né si avvertono paura o disperazione o lo scatenarsi di sentimenti violenti. Soltanto dolore. In qualche modo deve esprimersi, centinaia di occhi versano lacrime per esso. E’ senza dubbio così che nascono le tradizioni nazionali, che si pongono le prime pietre di usanze che si tramandano per anni e anni. Ogni 15 marzo le madri ceche andranno coi loro figli a deporre un mazzolino di bucaneve alla tomba del Milite Ignoto. E questo gesto si scolpisce nella coscienza dell’uomo come un grande atto sacrificale.

         Alle spalle di questa folla ho visto passare un soldato tedesco: egli si è fermato e ha salutato. Ha guardato quegli occhi rossi dal pianto, le lacrime che scorrevano sui volti, la montagna di fiori coperta di neve. Ha capito che quella gente piangeva perché “lui” era lì. E ha salutato. Non può non aver capito il motivo di quel dolore. Guardandolo ho pensato alla ‘Grande Illusione’: verrà davvero il giorno in cui potremo vivere fianco a fianco – tedeschi, cechi, francesi, russi, inglesi – senza farci del male, senza doverci odiare, senza farci torto a vicenda? Varrà davvero il giorno in cui fra gli Stati ci sarà comprensione come fra gli individui? Cadranno un giorno le frontiere tra i paesi, così come cadono quelle fra gli uomini quando essi si avvicinano?

         Come sarebbe bello vedere quel giorno!

                                                (Milena Jesenskà, “Pritomnost”, 22 marzo 1939)


Milena JESENSKA

Milena avait perdu sa mère à l'âge de treize ans.

Elle était élevée dans un esprit patriarcal par son père, le professeur Jan Jesensky, spécialiste connu en chirurgie maxillaire. A l'âge de quinze ans, Milena était une femme faite sur le plan physique ainsi qu'intellectuel.

Elle fréquentait l'un des premiers lycées de jeunes filles d'Europe - Minerva, et en était l'une des meilleures élèves. Après avoir passé le bac, son père insistait pour qu'elle étudie la médecine. Milena a abandonné en quelques semestres.

Elle fait son entrée dans le milieu artistique par l'intermédiaire du peintre Scheiner qui lui demande de poser comme modèle pour illustrer ses contes.

A un concert, Milena fait la connaissance d'Ernst Polak, travaillant comme traducteur dans une banque pragoise, et en tombe éperdument amoureuse. Lorsque son père apprend la nouvelle, il est furieux et rompt les relations avec sa fille.

En 1918, Milena part avec Polak pour Vienne, mais l'idylle tourne vite au cauchemar.

Au bout d'un certain temps, Milena découvre les infidélités de Polak. Pourtant elle n'arrive pas à le quitter, son amour étant encore trop intense. N'ayant jamais achevé ses études, elle n'a aucun métier. Les leçons de tchèque et l'offre des services comme porteur de valise sont ses seuls revenus.

Puis elle commence à traduire et à écrire ses premiers articles qu'elle envoie à Prague au quotidien Tribuna (Tribune). Elle se fait un nom en qualité de correspondante de mode.

En 1920, M. Jesenska lit les premières nouvelles de Franz Kafka.

Elle admire le génie et le style du grand écrivain. Elle fut la première traductrice tchèque des oeuvres Chauffeur, le Verdict, la Métamorphose et Contemplation. Jesenska envoie une traduction à la maison d'édition de Kafka. La réponse lui revient de l'auteur même.

Le premier contact des deux personnalités a lieu à Merano où l'écrivain se remettait d'une affection pulmonaire. Une attirance réciproque déclenche un amour prenant une forme épistolaire avant de se matérialiser physiquement...

Mais Kafka est gravement malade, la vitalité de la jeune femme de vingt quatre ans l'épuise. De plus il se rend bien compte de l'impasse de leur amour et exige, lui-même, la rupture. Milena en souffre énormément et ne cesse de l'aimer jusqu'à son décès.

Milena se sépare définitivement d'E. Polak et trouve un nouvel amour en la personne d'un ancien officier autrichien devenu communiste.

En cette même période, M. Jesenska devient collaboratrice de Narodni Listy (Feuilles Nationales), journal du parti conservateur national, sur la recommandation de son père qui, par ce geste, tente une réconciliation avec sa fille.

En 1925, Milena revient avec son ex-officier à Prague. Peu après leur retour, ils se séparent. En 1926 la jeune femme publie un recueil de feuilletons intitulé le Chemin de la simplicité dans lequel elle parle de sa première rencontre avec Kafka sans pour autant citer le nom du génie.

Le recueil est dédié à son père.

Un nouvel amour entre dans la vie de Milena... Un coup de foudre pour Jaromir Krejcar, architecte extrêmement doué, suivant les conceptions de l'avant-garde constructiviste. Leur relation conduit au mariage. L'activité journalistique de Milena culmine.

Elle participe à la rédaction du magazine d'avant-garde Pestry Tyden (les Variétés de la semaine). Elle est enceinte, mais peu avant l'accouchement, elle est prise d'une forte fièvre à complications qui la rend pratiquement paralysée.

Milena accouche d'une fille, Honza, mais son état de santé est très grave. Le genou gauche, atteint de nombreuses métastases articulaires, perd toute fléxibilité. Elle passe un an au sanatorium et change énormément sur le plan physique. Elle est grosse, bouffie. Son genou est raide, déformé et elle boite. De plus, elle devient morphinomane car, pour atténuer les douleurs atroces, il fallait lui administrer de la morphine pendant une assez longue période.

Elle cesse de travailler pour Narodni Listy (Feuilles Nationales) et commence à coopérer avec le journal d'orientation libérale Lidove Noviny (Journal populaire). La qualité de ses textes baisse. A partir de 1930, Milena travaille pour la revue communiste Tvorba (la Création).

En 1931, elle adhère au parti communiste, mais comprend vite le double sens de la doctrine néfaste et se fait exclure cinq ans après.

Elle suit une cure de désintoxication, mais devient une loque. Les circonstances l'obligent à travailler sous cinq pseudonymes différents pour Pravo lidu (le Droit du peuple).

Sa relation conjugale avec Krejcar tourne au drame. Krejcar dissout son mariage avec Milena qui vit seul avec sa fille Honza. F. Peroutka, rédacteur en chef du journal démocrate-libéral, mensuel politique, littéraire et scientifique, Pritomnost (le Présent), propose en 1937 à Jesenska de collaborer à sa publication.

Lorsque A. Hitler occupe la Tchécoslovaquie, Milena y critique les erreurs politiques du gouvernement.

Lorsqu'elle voit passer les chars des occupants, le 15. mars 1939, elle dit à F. Peroutka : « Ce n'est rien, attends un peu et ce seront les Russes qui nous occuperont. »

Son influence sur l'orientation du journal Pritomnost (le Présent) est considérable. M. Jesenska ne se contente pas de faire son travail de journalistique légal, elle se consacre à la rédaction de publications illégales.

Elle est arrêtée en 1939. La Gestapo la détient à la prison de Pankrac comme tous les prisonniers politiques. La cellule froide et humide déclenche le rhumatisme articulaire.

Finalement, M. Jesenska est transférée à Ravensbrück. Elle y travaille à l'infirmerie où elle s'occupe des dossiers des détenus atteints de maladies vénériennes. A Ravensbrück, elle fait preuve d'un courage incroyable, étant un grand soutien moral pour les autres détenus. Elle ne fait pas de différence entre différentes religions ou orientations politiques. En premier lieu, elle voit l'être humain. Elle souffre d'une néphrite, ses forces diminuent.

Le 15. mai 1944, elle entre en agonie, lutte contre la mort pendant trois jours et succombe le 17. mai 1944.

La vie de M. Jesenska a inspiré le réalisatrice française, Vera Belmont, pour tourner le film Milena. (Sources Radio Prague)

http://pagesperso-orange.fr/mondalire/kafkamilena1.htm

3 commenti:

Paola Tassinari ha detto...

Guardandolo ho pensato alla ‘Grande Illusione’: verrà davvero il giorno in cui potremo vivere fianco a fianco – tedeschi, cechi, francesi, russi, inglesi – senza farci del male, senza doverci odiare, senza farci torto a vicenda? Varrà davvero il giorno in cui fra gli Stati ci sarà comprensione come fra gli individui? Cadranno un giorno le frontiere tra i paesi, così come cadono quelle fra gli uomini quando essi si avvicinano?

Come sarebbe bello vedere quel giorno!
Ho riportato l' ultima frase perchè noi siamo qui ancora ad aspettare , questo scritto è veritiero gli stessi medesimi comportamenti di dignità e servilismo, di annichilimento e arroganza li vediamo ogni giorno non solo fra stranieri /residenti ma anche fra vicini.

pierperrone ha detto...

E' commovente il racconto di Milena.
E' talmente vero, talmente pacato, talmente disperato, talmente contemporaneo, che ci si commuove.
Era una donna eccezionale; perciò ho messo la sua biografia.
Cinque mesi dopo l'articolo è stata arrestata dalla polizia nazista. Chissà, da un soldato tedesco che disprezzava i cechi servili.
I soldati nazisti disprezzavano anche gli italiani, quando occuparono l'Italia. Anzi, dato che erano compagni di sciagura della dittatura monarchica e fascista ed erano stati chiamati in Italia dal duce e dai suoi camerati, non posso dire davvero che l'avevano occupata. Si trovavano bene, ecco, non volevano lasciarla.
Ma disprezzavano gli italiani. Comunque. Come i cechi.
Milena fu portata nei campi di concentramento, dove si ammalò. E lì morì. Consapevole della tragedia che stavano attraversando l'Europa ed il Mondo.
Ammazzata probabilmente da un soldato nazista che disprezzava i cechi e gli italiani.
A Roma c'è una targa, al ghetto, che ricorda i rastrellamenti degli ebrei deportati nei campi.
Chissà, ci sarà stato qualche romano che l'avrà conosciuta. Che sarà stato curato da Milena. Che sarà morto insieme a lei, morto quando è morta lei. Disprezzati, entrambi i popoli, dai nazisti.

Paola Tassinari ha detto...

Disprezzati entrambi i popoli dai nazisti perchè servili. Il coraggio uno non se lo può dare ce l' ha o non ce l' ha dice Don Abbondio. Ma il servilismo serpeggia in Italia anche senza un pericolo come l' occupazione.Gradassi ( non voglio fare di un' erba un fascio)col debole e tappetini coi forti o presunti tali. Io oggi mi sento buona e voglio spezzare una lancia per questi servili. Il loro motivo di discolpa è ...tengo famiglia ... ebbene se fanno ciò non per loro stessi ma per salvaguardare la famiglia vuol dire che l' amore è più forte dell' orgoglio.